mercoledì 15 aprile 2015

MIA Fair 2015. Una costante discesa.


Fortunato visitatore del MIA Fair (Milan Image Art Fair) edizione 2012, è innegabile e sotto gli occhi di tutti la contrazione di quest’ultima edizione chiusasi il 13 aprile 2015 nel nuovo spazio al The Mall di Porta Nuova a Milano.


Dall’avere una grande presenza di galleristi esteri, la quasi totale scomparsa di questi a causa dell’assenza di vendite (ricordiamo che questa fiera è legata al mercato del collezionismo fotografico), l’ha ridotta a ben misera cosa. Simone Mosca, nel suo articolo sul Corriere della Sera del 10 aprile cita il curatore della manifestazione Gianluigi Ricuperati: “Il MIA non va giudicato dai numeri, non può competere con fiere ricche come Paris Photo o Unseen di Amsterdam, se la deve giocare con le idee”. Si suggeriva quindi che si stesse puntando su queste ultime, ma proprio queste - le idee - sono state le grande assenti della fiera.

Sarebbe stupido fare singoli esempi, la manifestazione va vista nel suo complesso. Alcune gallerie avevano con sé pezzi di autori consolidati come Edward S. Curtis, Salgado, Duane Michals, Gian Paolo Barbieri, Mario Giacomelli, e pochi altri. E tranne due o tre di questi autori, che avevano uno spazio dedicato, per gli altri si trattava di pochissimi pezzi o pezzi singoli.


Duane Michals, The Young Girl's Dream, 1969. ADMIRA Gallery


Edward S. Curtis, Two Strikes, Pl. 78 form The North American Indian - 1907 - De Primi Fine Art

Le produzioni “nuove” degne di nota erano veramente rare e più che altro “carine”, ben riuscite, ma quasi mai espressione di una visione ed un ragionamento forti sul linguaggio e sul mezzo fotografico. Tra i più interessanti, Alejandro Cartagena, Antoine Rose, Anne-Catherine Becker-Échivard, Andrea Boyer, Eric Gou e pochi altri. Ma spesso solo trovate da fiera “di paese” appunto. In questo caso fiera del “Bel Paese”.


Anne-Catherine Becker-Échivard, Triple A, 2012 - Mazel Galerie

Altra nota dolente è che la qualità della maggior parte delle stampe lasciava ampiamente a desiderare, si perde quindi un altro pezzo di quella che è stata una delle chiavi della fotografia d’autore: la qualità della stampa. Cosa assurda in un momento storico in cui il mercato richiede grandi formati e non si sa come stamparli. Il risultato è nella maggior parte dei casi veramente aberrante.

Credo che sia il caso di ripensare, non solo al MIA Fair (l’intenzione va sempre lodata), ma al perché la situazione in Italia sia questa, nonostante l’acclarata e consolidata espansione fotografica trainata dal digitale e dalla simbiosi - letale? - tra questo e i social network. Forse bisognerebbe cercare alla base della tipologia di eventi che dovrebbero promuovere un certo tipo di fotografia e anche nella qualità della sempre più diffusa formazione didattica, il passo storicamente mai compiuto e che al contrario ha portato i paesi anglosassoni, la Francia, la Germania e più recentemente l’Olanda ai vertici della cultura fotografica. Sicuramente anche la capacità, preparazione e curiosità dei curatori/galleristi nello scoprire nuovi talenti realmente dotati ha il suo peso, visti i risultati.

La conclusione è che se ho impiegato 3 giorni per vedere l’edizione del 2012, sono bastate 4 ore e mezza per vedere questa (e con calma). Una parabola in costante discesa, questa l’”evoluzione” del MIA Fair  negli anni.





Il nuovo spazio espositivo del Mia Fair edizione 2015




giovedì 26 marzo 2015

Safety Film

Oggi, mentre riorganizzavo l’archivio di 33 anni di negativi, ho notato che sino al 1986 (ho iniziato a fotografare nel 1982) le pellicole della Ilford portavano ancora stampigliato, sulla pellicola stessa, la dicitura “safety film” ad indicare che la pellicola non era più altamente infiammabile come le precedenti pellicole con supporto di nitrocellulosa (fulmicotone), essendo questo stato sostituito dal triacetato di cellulosa a partire dal 1948 per le pellicole cinematografiche, e di conseguenza fotografiche.


© Francesco De Napoli / 2015

La pericolosità di queste pellicole è ben espressa in film come “Sabotage” del 1936 di Alfred Hitchcock, nella scena in cui il ragazzino (Stevie), che inconsapevolmente porta la bomba, non può salire sull’autobus con le pizze cinematografiche (in Inghilterra era vietato a causa dello loro estrema infiammabilità), come gli ricorda il controllore che purtroppo lo lascerà comunque salire:


o nel più noto “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore del 1988, nella scena in cui prende fuoco il cinema:



Come “macabra” curiosità, la pellicola con supporto di nitrocellulosa era usata anche come innesco (tra i tanti) per la bomba Molotov (o Molotov cocktail) come il War Office inglese nel 1940 indicava nelle istruzioni all’uso di questa bomba (Molotov, dal nome del ministro degli esteri sovietico Vyacheslav Molotov). Usata per la prima volta nella guerra civile spagnola (1936 - 1939), il nome è dovuto all’ironia dei finlandesi che la chiamarono così durante la Guerra d'inverno (30 novembre 1939 - 12 marzo 1940) contro l’Unione Sovietica nel contesto della seconda guerra mondiale.

British Home Guard Improvised Weapons (Wikimedia Commons)


Ecco come, incredibilmente, riguardando i miei negativi mi rendo conto che la mia personalissima storia, si interseca con la storia della fotografia, con la storia del cinema e con la storia.